lunedì 26 febbraio 2018

Reddito universale: una chimera? (Puntata 348 in onda il 27/2/18)


Un reddito universale è improponibile come dicono i detrattori? Un articolo recente sul Financial Times di Ian Goldin è utile a passare in rassegna alcune insidie dell’Universal Basic Income, come lo chiama lui.

Nasceranno nuovi lavori umani più avanzati
a sostituire quelli fatti dai robot?
Intanto: se se ne parla tanto ultimamente, ci sono dei motivi: non solo sentiamo ancora gli effetti della crisi nell’occupazione, ma le prospettive rispetto a cosa dobbiamo aspettarci in termini di piena occupazione sembrano preoccupanti. Una ricerca dell’Oxford Martin School, citata da Goldin, stima che nei prossimi 20 anni quasi la metà dei lavori negli USA e in Gran Bretagna potrebbero essere sostituiti da macchine. Potremmo obiettare che come nelle precedenti rivoluzioni industriali arriveranno nuovi lavori di qualità a sostituire i vecchi. Ma quest'aspettativa potrebbe essere troppo ottimista, se guardiamo a quanto questo tasso di sostituzione stavolta si stia mostrando basso.
Ora, un mondo che con meno lavoro riesce a produrre le risorse che gli servono (al netto delle sperequazioni, e crescita della popolazione permettendo) non sembra di primo acchito un posto così brutto. Ma lo diventa se il lavoro è la principale fonte sia di redistribuzione del reddito, sia di inserimento sociale. (Su quest’ultimo aspetto consiglio di riascoltare un’intervista di Marco Bentivogli per Derrick, il cui link è sotto).

Perché non pensare dunque a un reddito universale per distribuire la ricchezza prodotta col coinvolgimento di meno occupati? Un reddito universale, a differenza di meccanismi di welfare ai soli non occupati, ha il vantaggio di disincentivare meno il lavoro, visto che si cumula allo stipendio. Ma questo vantaggio si lega anche al principale problema di un reddito universale: costa moltissimo e va solo in piccola parte a coloro per cui è indispensabile, e quindi – pur utile a ridurre la povertà – non è efficace a ridurre le sperequazioni.

E l’altro grande problema è quello cui accennavo poco fa: il reddito universale non sostituisce il lavoro in termini di coesione e inserimento sociale – difetto che però in questo caso condivide con tutte le forme di welfare con trasferimenti monetari, a meno che questi ultimi non siano legati a comportamenti virtuosi di chi li percepisce, come per esempio cercare attivamente lavoro, formarsi, svolgere attività socialmente utili per quanto non remunerate dal mercato.

Allora, se il reddito universale non va bene, come si affronta un possibile futuro con strutturalmente meno occupati?
Lavorare meno ma in tanti potrebbe essere una soluzione, ma è difficile applicarla ai lavori più qualificati, che richiedono sia dedizione continua in chi li svolge, sia investimenti in formazione tali da rendere irrazionale poi un impegno part time.

Chiudo in modo fosco: e se fosse illusoria la prospettiva di un mondo che produce quel che ci serve quasi automaticamente? E se fossimo sull’orlo di problemi globali tali da obbligarci di nuovo a lavori faticosi a cui non siamo più abituati? Immaginate se un giorno tutti i microprocessori del mondo smettessero di funzionare.


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sabato 17 febbraio 2018

Movimento globale cattolico per il clima (Puntata 347 in onda il 20/01/18)

Si è riunito in Umbria nella prima settimana di febbraio 2018 il Movimento Cattolico Globale per il Clima, guidato da Tomas Insua, per stilare la propria road map di obiettivi di disinvestimento dalle fonti fossili, quattro mesi dopo che 40 istituzioni e organizzazioni cattoliche hanno annunciato il loro impegno per un’economia a impatto zero di carbonio.

Ne parla ai microfoni di Derrick Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, un centro di riabilitazione e ricerca medico scientifica per i ragazzi con disabilità plurime, che ha ospitato l’assise. A lei ho chiesto di parlarmi di questo movimento e di quali elementi distintivi la comunità cattolica porta nell’attenzione all’ambiente:



Beh, il fatto che ci sia una debolezza oggi della proposta politica elettorale su ecologia e l’ambiente lo pensano anche altri. Tra cui naturalmente associazioni ambientaliste come Legambiente, che ha presentato a Roma il 15 febbraio 2018 un documento chiamato Le sfide ambientaliste della prossima legislatura.

A ben vedere però l’attenzione ecologica in una parte della proposta elettorale c’è. Parte che include senz’altro +Europa, il cui programma sulla sostenibilità è online e condivide molti dei punti di Legambiente, alcuni dei quali del resto erano già tra gli obiettivi della campagna con Radicali Italiani #menoinquinomenopago.


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martedì 13 febbraio 2018

Nuovi rapporti di forza globali energetici (Puntata 346 in onda il 13/02/18)


Ho letto un interessante articolo di Walt Patterson sull’Energy Post in cui a partire da dati di un osservatorio del Chatham House Institute di Londra si ipotizzano scenari geopolitici legati alla rivoluzione energetica che il mondo sta imboccando con gli enormi investimenti in energie rinnovabili e quindi il progressivo previsto affrancamento dalle fonti fossili.

Ecco alcune tendenze citate nell’articolo.
Una bicicletta luminosa fotografata a Mondavio
Se risorse minerarie fossili perderanno importanza, verranno meno i vantaggi legati alla loro detenzione. Vantaggi che peraltro – aggiungo io - non necessariamente hanno portato a sviluppo i paesi ricchi di risorse. Con il termine “sindrome olandese” gli economisti chiamano proprio la tendenza dei paesi esportatori di risorse a perdere competitività in altri settori come il manifatturiero. A questo potrebbe aggiungersi che, se una ricchezza è concentrata in risorse
di proprietà pubblica, essa non facilita lo sviluppo di democrazie legate all’emergere di una classe imprenditoriale.

Ma a parte questo: diventeranno il sole e il vento i nuovi petrolio e carbone in termini di ruolo geopolitico di chi ne è ricco? Probabilmente no, o non del tutto: i sistemi elettrici in cui l’energia prodotta è convogliata sono molto meno globali dei mercati dei combustibili fossili. È anche vero però che le interconnessioni tra paesi stanno aumentando e che contratti internazionali di fornitura di elettricità verde si stanno sviluppando. Sempre più importanti le reti dunque, e sempre maggiori le opportunità di business per i giganti dei big data che potrebbero avere vantaggi nel gestirle, con i pericoli di concentrazione che conosciamo.
Sole, vento e acqua a parte, terre e metalli rari permetteranno a nuove potenze minerarie come la Cina di tenere sotto scacco il mondo dell’energia? Patterson ritiene di no. La bolla di molte materie prime del settore è già scoppiata, mentre il proliferare di tecnologie, per esempio nelle batterie, permette al sistema di non dipendere troppo da singoli elementi.
Infine una curiosità da un articolo di Adam Vaughan sul Guardian: nel 2017 la Brexit non ha frenato gli investimenti britannici in rinnovabili, visto che l’UK ha fatto la metà della nuova capacità eolica offshore di tutta l’Europa, mentre per il futuro si progettano pale eoliche marine alte il doppio del London Eye, da ben 15 MW di potenza l’una.


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domenica 4 febbraio 2018

Nuove rotte del gas (Puntata 345 in onda il 6/2/18)

La settimana scorsa abbiamo parlato di tendenze nel settore elettrico, oggi ci concentriamo sul gas, sfruttando in particolare due articoli degli scorsi giorni di una delle giornaliste italiane più specializzate nel settore petrolio e gas, Sissi Bellomo del Sole 24 Ore.

Il traghetto Chioggia-Venezia
fotografato da Derrick nel gennaio 2018
Dunque: una notizia riguarda l’Europa e l’area di produzione di gas naturale di Groningen, nel nord dell’Olanda, dove le autorità locali hanno imposto una nuova importante riduzione dell’estrazione dal giacimento. Il motivo, e ricorderete che a Derrick ne abbiamo parlato, per esempio qui, è che si ritiene che l’attività estrattiva abbia causato e possa nuovamente causare fenomeni sismici nella zona. La conseguenza della riduzione è il venir meno di un contributo rilevante della produzione europea, già in calo per fisiologico progressivo esaurimento dell’area del mare del Nord, con una maggiore dipendenza dalle importazioni dalla Russia, in particolare per i paesi del Nord. L’Italia come sappiamo ha rispetto a questi il vantaggio di essere interconnessa anche con le fonti algerina e libica, anch’esse peraltro non prive di problemi, e di avere in costruzione il gasdotto TAP per collegarsi alla produzione azera attraverso la Turchia.

L’altra notizia è americana e riguarda Boston, in un cui terminal di rigassificazione è arrivata per la prima volta una metaniera con gas russo partito da un porto europeo. Ma come? Non ci siamo detti un sacco di volte che gli USA si stanno anzi attrezzando per esportarlo il gas? Vero, ma il gas trasportato in forma liquida via nave ha il vantaggio di poter andare dove decide di volta in volta il mercato, rispondendo a necessità locali temporanee dovute per esempio a temperature rigide come quelle viste recentemente nella costa nordorientale degli USA. Il senso della filiera tecnologica del gas naturale liquefatto è soprattutto questo: benché abbia maggiori costi di trasporto rispetto a quello via tubo, si affranca dalle rotte obbligate, e permette a paesi che sono sia forti produttori che forti consumatori, come gli USA, di flessibilizzare il proprio sistema in alternativa agli stoccaggi geologici, cioè serbatoi naturali in grado di fare da polmone rispetto alla fluttuazione della domanda.


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Puntata di Derrick: coltivazione di idrocarburi e terremoti: http://derrickenergia.blogspot.it/2014/04/coltivazione-di-idrocarburi-e-terremoti.html