martedì 16 dicembre 2014

Aspetti economici della coltivazione di idrocarburi nazionali - Parti 2 e 3 - D222-223

Si chiude qui un mini-ciclo dedicato ad aspetti economici dell’estrazione del petrolio e del gas nel nostro territorio.

Avevamo finito l’altra volta osservando che le norme prevedono compensazioni economiche anche in termini di investimenti nei luoghi interessati dalla coltivazione di idrocarburi. Ma sulla natura di questi investimenti le indicazioni normative sono generiche fino alla presa in giro. Ora le informazioni sul fondo ad hoc sono sparite dal sito del Ministero dello Sviluppo, ma da quello che capisco il sistema è ancora in piedi e lo Sbloccaitalia all’articolo 36 bis chiarisce che la quota delle maggiori entrate destinata a essi è il 30% delle imposte pagate dai nuovi progetti minerari per i primi dieci anni.

È previsto nella Legge99/2009 anche un fondo di compensazione per le popolazioni delle aree interessate dallo sfruttamento, che in origine era destinato ad abbassare il prezzo dei carburanti, ma che con lo Sbloccaitalia diventa “Fondo per la promozione di misure di sviluppo economico e l'attivazione di una social card”. Anche qui dobbiamo aspettare a vedere come i soldi saranno utilizzati.

C’è un altro elemento a mio avviso che dovrebbe essere considerato dal decisore pubblico riguardo all’estrazione di idrocarburi: il loro prezzo. Se ricordo bene Renzi ha motivato il rinvio della vendita di un’ulteriore tranche di Eni ed Enel anche sulla base del prezzo oggi troppo basso delle azioni e, implicitamente, con l’aspettativa che crescano in futuro. Se applichiamo lo stesso ragionamento al petrolio, visto il crollo recente e la ragionevole aspettativa che esso comporterà una riduzione delle riserve e quindi una successiva scarsità tale da rialzarne il prezzo, la cosa giusta da fare è rimandare l’estrazione.

Tra le zone d’Italia interessate da intensificazione della ricerca e della coltivazione di idrocarburi c’è la Sicilia, dove la Regione ha siglato recentemente due protocolli d’intesa collegati tra loro: uno insieme al Ministero dello Sviluppo Economico con Eni sulla conversione con salvaguardia occupazionale della raffineria di Gela ad attività diverse dalla raffinazione petrolifera, un altro con Assomineraria (rappresentanza confindustriale di operatori dell’upstream petrolifero) sull’estrazione di idrocarburi in particolare nel canale di Sicilia.

L’accordo con Eni in sostanza dice che l’azienda, dopo aver perso troppi soldi con la raffinazione, che come sappiamo a Derrick è un business falcidiato dal calo della domanda dei combustibili e dall’eccesso di capacità produttiva, investirà a Gela in produzioni non più legate al petrolio bensì soprattutto a biocombustibili e loro logistica oltre a quella del gas naturale liquido, mentre quasi 400 esuberi della raffineria verranno ricollocati nel settore minerario oil e gas, anche se solo un quarto in Sicilia dove Eni prevede investimenti per aumentare a regime la media annua di produzione di gas naturale di 700 milioni di metri cubi e di petrolio di 1,2 milioni di barili per dieci anni, che significherebbe più che raddoppiare la produzione annua di gas siciliano e aumentare di poco più del 20% quella petrolifera rispetto al 2013.
Il protocollo non cita peraltro i danni ambientali dalle attività della raffineria accertati dallo studio epidemiologico Sentieri.

E in cambio cosa promette la Regione? Nei due protocolli s’impegna a svolgere in modo efficiente gli iter autorizzativi e a non aumentare le royalty, fermi i poteri di legislazione statale e regionale. Impegni in realtà un po’ deboli se presi alla lettera, visto che appunto non possono comprimere l’autonomia in materia del consiglio Regionale e del Governo. Impegni che d'altra parte trovo dubbi in termini di tutela della concorrenza, se si deve intendere che la Regione o il Governo garantiranno ai firmatari accesso esclusivo alle attività minerarie.

Limitatamente all’accordo su Gela, invece, il do ut des con Eni è esplicito: Eni fa la conversione della raffineria (ma con meno occupati in essa) e in cambio intensifica l’upstream nel canale di Sicilia.
Contro gli accordi si sono espressi tra gli altri Legambiente e il Fatto Quotidiano, che con Maria Rita d’Orsogna ha mostrato l’inconsistenza di alcune dichiarazioni di Crocetta sulle attese stra-ottimistiche di introiti da royalty.

C’è legittima preoccupazione anche per l’incompatibilità tra valorizzazione del patrimonio ambientale anche ai fini di sviluppo del turismo e attività petrolifera.
Io credo che l’incompatibilità con il turismo locale delle attività minerarie a terra, in un territorio pregiato e fragile come quello italiano, sia quasi sempre affermabile. Per quanto riguarda le attività in mare aperto, da un lato è vero che la coltivazione di idrocarburi, per esempio in Adriatico, non ha impedito lo sviluppo turistico della riviera romagnola e marchigiana, dalla quale è spesso possibile vedere piattaforme al largo, dall'altro c’è anche in mare la questione sicurezza, che si lega alla capacità dello Stato di controllare il rispetto delle regole e di investire nei controlli.

Più in generale, però, come scrivevo sopra, credo che intensificare l'estrazione di idrocarburi nazionali ora sia un errore sul piano economico, tenendo conto del valore attuale e potenziale futuro delle riserve.

I due protocolli d'intesa siciliani si possono scaricare qui.

Per questa puntata ringrazio Zelda Raciti.

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