martedì 10 settembre 2013

D172 – Il punto sullo shale gas - Parte 2

Seconda puntata di un ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).

Ripartiamo, approfondendo, da dov'eravamo rimasti l'ultima volta. I dati dell'agenzia statunitense per le statistiche sull'energia indicano una quadruplicazione delle riserve certe USA di shale gas tra il 2007 e il 2010, con un livello a fine 2010 già di quasi 3000 miliardi di metri cubi, pari a oltre 40 anni di consumi italiani attuali. E anche la produzione è aumentata tanto da deprimere il prezzo spot a inizio 2012 sotto i 7 centesimi di dollaro al metro cubo (recentemente risalito fino a raddoppiare, ma ancora molto basso rispetto agli anni precedenti e pari a solo un terzo del prezzo italiano nel frattempo quasi allineatosi a quello centroeuropeo).

Da un lato quindi gli USA, che secondo l'International Energy Agency di Parigi hanno un futuro di autosufficienza petrolifera, potrebbero azzerare o invertire anche il proprio import di gas, dall'altro però il crollo così violento del prezzo sta portando a una riduzione pesante dell'investimento in estrazione da parte di aziende come BHP e Shell, come riporta recentemente tra gli altri Bloomberg.

Questo rallentamento negli investimenti secondo i più critici potrebbe essere l'inizio dello scoppio di una bolla: la bolla della filiera della prospezione ed estrazione dello shale gas. Questo accadrebbe se gli investimenti fatti fin qui si rivelassero di colpo non sostenibili in termini di ritorno per producibilità dei giacimenti e prezzo del prodotto. Va in direzione di questa tesi un lavoro dello scorso febbraio di David Hughes del Post Carbon Institute, che afferma che il declino di produzione più veloce del previsto dei giacimenti non convenzionali americani, e la veloce necessità di metterne in produzione degli altri, rendono più alti del previsto i costi fissi per gl'idrocarburi non convenzionali.

Ma qui siamo alle solite: se gli investimenti si fermano, la produzione cala e il prezzo torna in fretta su livelli più sostenibili in termini di ritorno degli investimenti. Detto diversamente: le riserve dipendono dagli investimenti in prospezione ed estrazione, che a loro volta dipendono dal livello e dalla stabilità del prezzo degli idrocarburi. Se il prezzo del gas scende molto, è normale che crollino temporaneamente gli investimenti. In generale, delle variabili macroeconomiche, gli investimenti sono una delle più volatili.
Va in questa direzione, di criticismo alla teoria del picco, per esempio David Blackmon nel blog di Forbes.

Per quanto mi riguarda, mi pare che la contrapposizione tra picchisti e non picchisti sia sterile in termini di conseguenze di politica energetica. Nel senso che le conclusioni a cui arrivano i picchisti (in primis la necessità di abbandonare gli idrocarburi) restano corrette anche se il picco non c'è ancora. Perché gli idrocarburi, non rinnovabili, diventeranno sempre più rari e quindi relativamente costosi da estrarre, oltre che costosi per l'ambiente in termini di danni e di costi di moderazione degli effetti negativi. Quindi affrancarsi il prima possibile dai combustibili fossili è meglio.

La prossima volta ripartiamo dal boom americano del gas di scisti e dagli scambi commerciali di gas tra USA e resto del mondo.

Ringrazio Luca Pardi di Aspo Italia per alcuni dei riferimenti.

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